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Margherita Furlan |
Siamo
in un momento di straordinaria transizione a livello globale. E
qualcosa è cambiato anche per tutti i giornalisti, di tutto il
mondo, che erano abituati da sempre al “monopolio”
dell’informazione,
inteso come l’esclusiva
di poter parlare da uno a tanti.
Questa
esclusiva non l’abbiamo
più. Per tornare a essere autorevoli occorrecambiare
molte cose del vecchio mestiere. Prima di tutto imparando a cercare
la verità,
noi stessi, in un mondo in cui la verità è diventata merce rara.
Il che significa adattare le regole antiche del mestiere alla nuova
realtà.
Nel
grande mare della Rete esistono ancora molte isole dove è ancora
possibile usare le principali norme del giornalismo. Il giornalista
ha un dovere: informare correttamente i cittadini. Ma la sua
autonomia, oltre che minacciata dal proprietario del mezzo, è ora
sottoposta alle leggi degli algoritmi. Chi lavora solo sul web, pur
non avendo un padrone, è soggetto a un sistema di norme tecniche
dalle quali non può prescindere e che sono sempre più oppressive,
che misurano la qualità
del
lavoro in termini di numeri impietosi.
Prendiamo
i giornali italiani. Secondo i dati ufficiali la vendita dei
quotidianinel
2008 era di 1,8 milioni di copie. Dieci anni dopo, nel 2018, le copie
vendute sono crollate a 836.000, cioè il 53% in meno. Il declino è
stato costante negli anni, anche se la flessione dell’ultimo
anno è rimasta contenuta attorno al 7%. Ma la domanda circa il
futuro della carta stampate resta irrisolta. Per meglio dire: il calo
continuerà.
Il web vincerà
in
ogni caso, anche se il lavoro degli editori tradizionali non cesserà
ma
verrà
dirottato
su nicchie di mercato diverse, che rispondono a esigenze dei lettori
e dei consumatori che non cesseranno. Ci sarà
sempre
una serie di pubblici che vorranno la qualità,
l’approfondimento,
la raffinatezza, la specializzazione.
Ma
una cosa è certa. Oggi e ancor più domani non ci s’informerà
più
come in passato. Certo la lettura di massa del quotidiano, inteso
come fonte primaria di informazione per tutti —
chiamiamola
informazione generalista —
sarà
sempre di più soppiantata inesorabilmente da una ricerca
personalizzata su canali diversificati di informazione, che avranno
(già
hanno)
tempi, forme e contenuti diversi tra di loro. Il villaggio globale ha
diversificato e spezzettato il concetto stesso di informazione.
L’esempio
più illuminante di questo cambiamento è l’infotainment,
cioè l’informazione
più intrattenimento. Che a sua volta si sta trasformando sempre di
più in intrattenimento con qualche residuato di informazione. Chi
avrebbe mai immaginato, solo venti anni fa, un telegiornale
interrotto sistematicamente dalla pubblicità?
È
solo un esempio dei cento che si potrebbero fare.
Cosa
possono fare gli editori, per cavalcare il cambiamento in atto senza
essere sbalzati di sella? Cambiare il rapporto tra testata cartacea a
web e social network, ma è una ritirata disordinata che prelude alla
confitta della prima. Senza nessuna certezza che il secondo possa
vincere, perché
il
pubblico scappa dall’informazione
in cerca di ogni altra delle mille merci comunicative che non
richiedono nessuno sforzo personale. Ad esempio, gestendo
meglio il rapporto tra testata e social network che,
al momento, presenta grandi criticità.
Una
recente ricerca, svolta da Data Media Hub, ha messo in luce come
venga postata dalle redazioni sul web una quantità
impressionante
di contenuti. Ma questa fiumana di contenuti viene riversata sui
social senza quasi nessuna attenzione alla gestione della community o
a un vero un dialogo con i lettori. La
Stampa, in un mese, fornisce solo 55 risposte ai commenti, e pensare
che è il quotidiano che interagisce di più con i lettori. Il
Sole24Ore si
limita a dare 38 risposte, Il
Corriere della Sera 35.
Ciò a
fronte dell’infinità
di
commenti ricevuti (in un mese, complessivamente, i post caricati
dalle venti testate in esame hanno ricevuto 2,6 milioni di commenti,
4,1 milioni di condivisioni e 8,4 milioni di like). Appare chiaro un
problema di comunicazione. La situazione è dovuta anche al fatto
che non
si investe sulla figura del social
media editor, che il più delle volte è lo stesso giornalista che si
trova a dover fare il “doppio
lavoro”,
tradizionale e digitale insieme.
Qual
è
allora il ruolo del giornalista oggi? La difficoltà
del
giornalismo sta nel far emergere informazioni utili, spesso scomode e
nel presentarle in modo comprensibile. Per farlo al meglio dobbiamo
reinserire nel menù tre
ingredienti: metodo, scrupolo nella verifica delle informazioni,
studio per la semplificazione della complessità
(leggi:
mi sforzo di farti comprendere concetti difficili, ma non elimino i
concetti difficili dalla divulgazione). Il che poi si riduce a
competenza e tempo. Fare finta che i giornalisti siano superflui oggi
è come dire che la comunicazione non abbia poi tutta questa
centralità
nel mondo in cui viviamo che, però, si fonda sulla comunicazione sia
dal punto di vista tecnologico sia dal punto di vista culturale.
Tuttavia il giornalista di una testa web si trova imprigionato da
regole e algoritmi, da tecniche comunicative, da un mare di
comunicazioni solo apparentemente informative ma in realtà
di
carattere commerciale, pubblicitario, manipolatorio. Essere se stessi
è praticamente impossibile. Scegliere in autonomia lo è ancora di
più.
È
il
Mercato,
la sua forma, le sue esigenze, che decide. E tutto ciò non ha ancora
attinenza con la verità,
e il servizio pubblico.
La
crisi del giornalismo oggi è dovuta al dominio della tecnologia e
del denaro. Il giornalista dunque è espropriato della possibilità
di
usare le une e le altre in modo indipendente. Se e quando prova a
farlo il suo destino più probabile è di essere espulso dal
processo. La rinuncia è l’esito
più comune. La stanchezza e l’inutilità
degli
sforzi conducono spesso alla rinuncia del senso di responsabilità.
Quello che conta è il numero dei contatti. E questo vale per
l’editore
come per il social network al quale l’editore
di affida. Il giornalista riceve ordini ai quali non può non
rispondere. Così la comunicazione (non è più
nemmeno il caso di usare la parola informazione) diventa affannosa,
frenetica, permanentemente pirotecnica. E tutto questo —
che
già,
di per sé è un
inganno —
finisce
per affogare in un inganno ancora più tragicomico: che consiste
nella falsificazione dei contatori dei contatti. Perché è ormai
chiaro, o dovrebbe esserlo, che la quantità
dei
contatti registrati non corrisponde affatto ai contatti reali. E i
contatti reali non corrispondono affatto ad un pubblico fedele.
La
politica, ormai parte del Mercato, fa larghissimo uso ormai di questo
inganno a doppio fondo. Basti pensare alla recente scoperta delle
60mila identità
false
di individui twitter usate per dare consenso al colpo di stato in
Bolivia contro il presidente Evo Morales. Oppure alla scoperta che,
con alta probabilità,
il tanto strombazzato mantra dei 2 miliardi e 450 milioni di
utilizzatori di Facebook è di gran lunga sovrastimato dai milioni di
indirizzi falsi, creati apposta per essere venduti alle agenzie
pubblicitarie. Le quali aloro
volta li vendono agli inserzionisti, che fingono di crederci.
Come
uscire da questa commedia è la grande questione che, tuttavia,
nessuno si pone. Il fatto è che ormai non si può più
prescindere dai social networks per tenere n vita un giornale. Prima
dell’avvento
dei social network non c’erano
grandi differenze tra il giornale online e
la versione cartacea. Sul
web si puntava sull’attualità,
ma la stessa notizia si trovava approfondita il giorno dopo sulla
carta stampata. Con l’irruzione
dei social media –
prima
Facebook nel 2004, poi Youtube nel 2005, seguito da Twitter –
i
content providers sul posto diventano corrispondenti involontari,
dando vita a quella forma di giornalismo conosciuta come citizen
journalism. La partecipazione attiva dei lettori, grazie
all’interattività
dei
nuovi media, suggerisce l’illusione
di una presunta orizzontalità
democratica
e di uno
scambio maggiore. In realtà
si è
tradotta in una degenerazione
dell’informazione.
I
giornali sono obbligati a consumare la notizia molto rapidamente: il
prodotto è confezionato e venduto subito perché
altrimenti
diventa inutile. Il web ha eliminato i costi di produzione e
distribuzione e incrementato la diffusione dei contenuti. Ma i
contenuti non sono più né
verificati,
né
sicuri.
Così non si è
più
in grado di sostenere la macchina industriale del passato perché
oggi
le notizie sono accessibili gratuitamente.
Il
punto allora è:
come rendere remunerativo il giornalismo sul web? Al
momento questa soluzione non c’è. Ed è molto dubbio che la si
possa trovare visto che nel villaggio globale le notizie vengono
sempre di più sostituite dalle fake news e che la loro produzione in
serie è sempre più generalmente controllata e definita dai grandi
social networks. I quali, a lorovolta,
hanno definito le regole del mercato della comunicazione e possono
imporre i loro copyrights a tutti i produttori di contenuti.
Qui,
in questi giorni abbiamo molto parlato di multipolarismo ideologico,
ma
a me sembra che si stia andando sempre più velocemente verso
l‘imposizione
di una struttura comunicativa unificata sotto il controllo dei
giganti del web.
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